Il self-ie è un’aspetto della propria identità, e da un punto di vista fonetico rappresenta il proprio Sé; adottato principalmente dai millennials, ma non solo, è ormai entrato nella nostra quotidianità.
Un’ autoscatto, un’autoritratto fotografico, attuato attraverso la fotocamera frontale dello smartphone, ci consente di rispecchiarci, costruendo un’immagine di noi stessi, pronta per essere messa in scena, sul palcoscenico dei social media. Così ci spettacolarizziamo come fossimo attori, top model, divi o miti da osannare, risultando irrinunciabile mostrarsi agli altri, per creare un alone di interesse intorno a noi stessi.
Cosa si nasconde dietro questo scatto?
Forse un’entusiasmo mediatico, insieme ad un compiacimento estetico, autoreferenziale, ma anche un’affermazione narcisistica di vanità: l’autoscatto del proprio io: “se non (auto) scatti non sei nessuno!”
Del self-ie ne gode, oltre all’autore, il pubblico dei social, e tutti quelli a cui verrà mostrato, ciò che è atteso è la reazione nello “sguardo di chi guarda”, che si tradurrà in emozioni, sensazioni e sentimenti, e non ultimo commenti.
Dall’autoritratto al Self-ie
Il desiderio di rappresentarsi è sempre esistito nei secoli; nell’alta borghesia i pittori erano preposti a questo compito, realizzando ritratti, ma soprattutto l’autoritratto, era il ritratto che il pittore con la sua tavolozza auto dipingeva di stesso, per lasciare traccia di sé ai posteri; il genere si è affermato nel periodo medievale, fino a raggiungere dignità artistica nel Rinascimento.
Il self-ie, oggi, sostituisce l’autoritratto ed immortala con il suo scatto, un particolare momento della vita del soggetto e testimoniando relazioni amicali, familiari, amorose, rende pubblica la propria esperienza e la propria privacy. Il self-ie raffigura attimi di vita quotidiana, eventi relazionali, parti del corpo, pensati dal soggetto, per descrivere cambiamenti, ma soprattutto per “sedurre”, dal latino sedŭcere, attrarre a Sé, nell’ottica di risultare sempre più affascinanti, ma rischiando di diventare il “tormentone dei media”.
Self-ie un’attività a rischio
Il self-ie diventa, persino un’attività a rischio della propria incolumità fisica. Il soggetto pur di assolvere a questa moda/mania è disposto a diventare acrobata di Sé stesso, pur di sorprendere e risultare unico, anche a rischio della propria integrità.
Il tema del self-icidio, è purtroppo attuale ed inquietante, secondo dati ufficiali, sono oltre 259 le persone rimaste uccise nel mondo tra il 2011 e la fine del 2017 nel tentativo di realizzare self-ie pericolosi. Il self-ie estremo è qualcosa di affascinante soprattutto per i giovani, il 70% dei decessi riguarda ragazzi tra i 10 e i 29 anni, vittime di cadute dall’alto, incidenti stradali, etc.., solo per il gusto di esibire, come trofeo uno scatto insolito ed audace, che eliciti stupore e meraviglia..
Il “self-ie che uccide” rappresenta l’estremizzazione narcisistica della celebrazione dell’Io, mostrando la necessità di sentirsi unici e al contempo animati dal desiderio di sfidare la sorte, il limite.
Self-ie il rapporto con lo specchio
La diffusione dei self-ie sui social network, riproduce dal punto di vista psicoanalitico il tema del “rapporto con lo specchio”, dove nello sguardo dell’Altro è atteso, come ritorno, un emoticon, un commento, un feedback positivo. Il braccio allungabile del self-ie, consente migliori inquadrature, riproducendo e ben rappresentando il prolungamento del Sè: col braccio del self-ie è possibile arrivare ovunque, rendere grandioso il proprio Io, avvalendoci di cornici, paesaggi e panorami sorprendenti.
Narciso e Boccadoro
il self-ie diventa la migliore “immagine di me” che l’Altro possa restituirmi. Si può addirittura raggiungere la perfezione modificando la foto con filtri o specifiche App, creando così una sorta di Io-ideale, un alter ego virtuale, del quale posso, io stesso innamorarmi; è la storia di “Narciso e Boccadoro“, dove Narciso per abbracciare la sua immagine, riflessa nell’acqua, cade e annega.
Il bisogno continuo di approvazione e di conferme dall’esterno, rischia di rendere questa popolazione, dei Social sempre più confusa e insicura. Costoro che dipendono dal giudizio altrui, manifestano una vera e propria dipendenza , definita mania da self-ie, fenomeno oggi diventato virale.
Self-ie bidimensionalità e tridimensionalità
I Surfisti, mai centrati su sé stessi, sul proprio Sé, sulla propria interiorità, sono sempre in un altrove. La cultura dell’apparire, oggi, si fonda sulla bidimensionalità dell’essere, negando il fatto che l’essere umano è tridimensionale e la sua bellezza, se c’è, è data dalla dimensione interiore che l’uomo lascia intravedere, non dall’apparenza o dall’esteriorità, né dai giochi di luce e ombra dello scatto.
La società liquida e narcisistica, nella quale purtroppo siamo immersi, tende a coltivare una moltitudine di falsi Sé, in cerca di soli like, di false conferme. I surfisti sono una popolazione ormai irrimediabilmente convinta che i “followers” siano dei fans pronti a osannarli ogni volta che si palesano a loro.
Self-ie Syndrome e i falsi sorrisi
Si sta diffondendo una sorta di “Self-ie Syndrome”, un disordine della personalità che emergerebbe nei soggetti preoccupati della propria immagine digitale, si potrebbe addirittura parlare di un’aumento di narcisismo connesso alla diffusione delle nuove tecnologie, che tendono all’esaltazione, all’ammirazione del Sé, nella dimensione social, dove: “tutto è ciò che (non) appare”, sebbene sia ormai noto che, l’utilizzo dei Social, con le sue piattaforme: WhatsApp, Facebook, Instagram, Messenger, risulta maggiore nelle persone insicure e narcisiste.
Il self-ie divenuto virale, annuncia l’egocentrismo, il narcisismo, l’espressionismo contemporaneo dei falsi sorrisi di felicità, alla ricerca di una relazione impossibile, in quanto solo virtuale, accomunando la solitudine di una popolazione smarrita.